19 March 2024

Punta Arenas, lo Stretto, i Menéndez-Braun, gli indigeni e i massacri di operai

Venerdì 2 marzo 2012

Punta Arenas è una città che ti lascia il segno. Non è bellissima, ma estremamente affascinante, soprattutto se si riesce scavare oltre l’apparenza iniziale che magari non racconta molto. Ha mantenuto invece un’identità ben precisa, al contrario per esempio di Ushuaia.

Ricordo dieci anni fa durante la mia prima visita, la fortissima emozione quando mi recai al porto e mi affacciai per la prima volta sullo stretto di Magellano, (Magalhães/Magallanes, diventato anche il toponimo della regione). In centro sorge una grande statua,

con Fernão de Magalhães sulla sua sommità.

Si dice che se si struscia il piede a penzoloni si farà ritorno in città.

Il lungoStretto è stato da poco rimesso in sesto,

con nuovi centri direzionali,

ma anche una vecchia struttura,

e dei cormorani e altri uccelli.

Improbabili chioschi chiusi,

e l’ottima birra locale, Austral di nome e di fatto.

Molti quartieri sono rimasti inalterati da oltre un secolo, con case basse, tetti di lamiera.

Quasi nascosta, si vede anche la sede di una squadra locale di calcio, il Club Deportivo Atlético Progreso (sic).

È qui che il vento soffia senza sosta. Nella mia prima visita avevo contattato Carlos, un giornalista locale, che viveva in una casina di lamiera in un quartiere periferico della città. «La mia patria termina dove il vento non soffia più e dove il sole inizia a scaldare», raccontava aggiungendo che tuttora sono molti gli europei che vengono a vivere da queste parti, perché stufi del loro mondo. «Qui uno può sentire realmente la grandezza della natura, con il vento che possiede la stessa forza che spinge il sangue nelle vene».

I Menéndez-Braun e gli indigeni

«Questa regione», precisava Carlos, «è stata popolata solo negli ultimi 150 anni, ma rappresenta un paradigma della storia dell’umanità: guerre, sfruttamento, estinzione di popoli, massacri di operai».

Era l’epoca della grande ricchezza di Punta Arenas. Fino all’apertura del canale di Panama nel 1912 tutte le navi in transito tra l’Oceano Atlantico ed il Pacifico dovevano per forza passare di qui, attraverso lo stretto di Magellano.

Oltre alla navigazione, c’erano i minerali, il carbone e le pecore: nel 1876 arrivarono le prime 300, in dieci anni erano già 150mila e alla fine del secolo un milione e oggi sono due milioni. A Punta Arenas sorge un monumento ai pastori ed allevatori del prezioso animale, che ora invece è andato in crisi vista il crollo del prezzo della lana iniziato già da alcuni anni.

Tutte le attività erano controllate da due famiglie, i Menéndez e i Braun, all’inizio ferocemente rivali ma che nessuno riuscì più a contrastare quando fecero sposare i propri rampolli. Dappertutto in centro a loro e ai loro discendenti sono dedicati piazze, placche,

statue,

edifici e quant’altro. La Casa Menéndez-Braun, ora museo, fu costruita nel 1905 come residenza della coppia.

Secondo gli occidentali gli indigeni non avevano diritto di proprietà per cui i bianchi si appropriarono di spazi, alberi, animali. L’allevamento impose delle divisioni fisiche tra le proprietà che obbligarono gli indios a spostarsi verso terre di altri indigeni dando origine a guerre fratricide. Le malattie e l’alcool introdotti dagli europei fecero il resto.

Nelle librerie locali si trovano molti libri sull’argomento,

uno su Rosa Yagán de Milicic (anche in edizione in croato!) di cui avevo visto la tomba nel cimitero di Puerto Williams,

ma appare anche la abuela Cristina,

oltre a riferimenti a Coloane

e alla Patagonia sin represas, quasi un sunto del mio viaggio fino a qui.

Il gallego Soto e i massacri di operai

Nel 1891 l’oro era ormai finito e la Sociedad Explotadora de la Tierra del Fuego controllata da Mauricio e Sara Braun mise sotto contratto gli avventurieri arrivati dall’Europa per badare alle loro immense estancias. Gli operai-agricoltori qui immigrati provenivano soprattutto dal Mediterraneo e portavano con sé forti tradizioni anarco-sindacaliste. Il movimento verrà piegato con fuoco e sangue.

Uno degli episodi più famosi riguardò l’eccidio presso la Estancia Anita, situata vicino a El Calafate. L’estancia si può addirittura visitare con una gita turistica, ma la sua importanza storica non viene segnalata.

Antonio Soto, emigrato dalla Galizia, fu tra gli organizzatori delle rivolte operaie per migliorare le condizioni di lavoro. Nel 1921 il governo appoggiando i latifondisti mandò l’esercito per fermare con qualsiasi mezzo gli scioperi. Agli operai, asserragliati nell’estancia Anita con a capo el Gallego Soto, venne offerto un accordo di resa. La maggioranza acconsentì, ma Soto non si fidava e riuscì a fuggire; gli altri 300 operai vennero massacrati.

Al Calafate un piccolo passaggio è stato dedicato a Soto.

Quelle vicende vennero mirabilmente narrate nei tomi della Patagonia Rebelde di Osvaldo Bayer (che ho intervistato qualche anno fa).

Dieci anni fa, proprio al Calafate avevo conosciuto per caso Tato, un argentino con ascendenze di Carrara: avevo cercato di ricontattarlo ora ma mi ha risposto che da qualche tempo è andato a vivere proprio in Italia. Allora Tato mi passò il contatto con Isabel, la figlia di Antonio Soto, che mi raccontò molte storie appassionanti che sono ancora in attesa di essere pubblicate in un libro.

Con pesca, allevamento, gas, petrolio,

e boschi la zona di Magallanes è tra le più ricche del paese. Dappertutto sventola anche la bandiera della regione a identificare la sua specificità, spesso in opposizione allo stato cileno che l’ha a lungo dimenticata.

Comments

  1. maritza says

    Hola!!…yo quiero leer el libro La Patagonia Rebelde…..puede que se asemeje a la situación actual de la Patagonía.

    Sigue mostrandonos tus fotos y relatos

    Abrazos

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