Lunedì 25 aprile 2011
Domani si compiono i 25 anni dall’incidente di Černobyl’ / Chernobyl, la più grande tragedia nucleare della Storia in qualche modo raggiunta nelle ultime settimane dalla sciagura della centrale di Fukushima, pesantemente danneggiata dallo tsunami seguito al terremoto che ha colpito il Giappone l’11 marzo. Nel luglio 2002 ebbi la possibilità di visitare la famigerata “Zona di esclusione”, la parte più contaminata dall’incidente di Černobyl’, nel Nord dell’Ucraina.
Il filo spinato circonda questo territorio, ancor oggi sorvegliato dai militari, in un raggio di 30 km intorno alla Centrale Nucleare. È conosciuto semplicemente come La Zona, epiteto che nella sua semplicità lascia immaginare le peggiori sensazioni.
Per la visita avevo pagato circa 200 euro all’agenzia “Čornobylinterinform” (ovvero l’“Agenzia Statale per l’Informazione, Cooperazione Internazionale e Sviluppo”). All’epoca l’autorizzazione veniva concessa solo a scienziati, giornalisti o a persone con motivazioni speciali. Negli ultimi anni invece è iniziata una vera e propria operazione turistica con tanto di agenzie private che offrono la possibilità di visitare i macabri luoghi della tragedia nucleare e diversi autobus che scaricano nella Zona varie dozzine di turisti ogni giorno.
Quel giorno ero solo, insieme alla mia guida e all’autista che mi aveva portato fin lì da Kyiv. Fu una delle esperienze più dure che abbia vissuto come giornalista; ricordo soprattutto il silenzio assordante della città di Pripjat’, evacuata poche ore dopo l’incidente e rimasta praticamente intatta.
Questo è il reportage che scrissi allora.
L’INFERNO DI ČERNOBYL’
OPAČIČI (Ucraina) – La vegetazione è notevolmente cresciuta nel villaggio di Opačiči. Qui vivono solamente 28 persone, tutte anziane, e ormai da molto tempo non c’è nessuno che si occupi dei servizi.
Gli abitanti di Opačiči sono dei sopravvissuti. Si ritrovano tre volte la settimana quando un furgoncino raggiunge il luogo prefissato per vendere pane, olio, zucchero ed altri prodotti di prima necessità. «Lì si raccontano le ultime novità e così le notizie circolano», spiega Valentina Kovtunentko, di 67 anni. Per gli acquisti più importanti una volta al mese raggiungono invece la città di Ivankov, ad una cinquantina di chilometri. Neanche la chiesa è permanente e le funzioni si eseguono solo nelle feste importanti.
Qui tutti coltivano i propri prodotti. La stessa Valentina mostra i cavoli del suo piccolo orto, in cui crescono anche cipolle, patate, fragole. «È ormai tempo di tagliare», aggiunge tranquillamente.
«Circa 300 famiglie vivevano qui», ricorda con nostalgia. «Questa regione era incantevole e la nostra vita incredibilmente comoda. Avevamo di tutto: i boschi dei dintorni ci fornivano funghi e piccoli frutti. Il pesce lo prendevamo dal fiume qui vicino, in cui le barche navigavano a tutte le ore». Oggi quello stesso fiume Už è sicuramente il più pescoso del mondo, poiché nessuno si azzarda a pescare a venti chilometri dalla Centrale Nucleare di Černobyl’, nel nord dell’Ucraina.
Černobyl’ rimane il monito perenne per quanto riguarda i pericoli del nucleare, qui l’emergenza nucleare è tutt’altro che risolta.
La notte fatale
Il 25 aprile del 1986 era previsto un test, poi posticipato alla notte, quando nella regione c’era bisogno di meno energia. Si voleva verificare se, in caso di un’avaria e di un calo di tensione, le turbine potessero produrre sufficiente energia fino all’attivazione dei generatori.
A mezzanotte entrò in azione il turno della notte, con Aleksandr Akimov ai comandi; circa duecento lavoratori erano di servizio.
Il reattore Numero 4 fu portato al 25% della sua capacità, ma qualcosa non funzionò e la potenza cadde all’1%. Era necessario aumentarla lentamente, ma si verificò una repentina accelerazione. I sistemi di sicurezza erano stati deliberatamente staccati per il test. Non poterono entrare in azione le barre di grafite che rallentano la reazione a catena e non ci fu modo di fermarla: la temperatura crebbe in modo abnorme e il reattore divenne incontrollabile. All’una ventitré minuti e cinquantotto secondi esplose: il coperchio, pesante duemila tonnellate, si volatilizzò e la grafite che copriva il reattore si incendiò, riversandosi nell’ambiente insieme ai gas e a tonnellate di materiale radioattivo.
Si trattò del più tragico incidente della storia dell’energia nucleare e avrebbe lasciato delle conseguenze inimmaginabili non solo sulle regioni adiacenti ed in Europa, ma nel mondo intero.
Opačiči rientra nella Zona di esclusione di 30 km intorno alla Centrale, in cui c’è bisogno di un permesso speciale del governo ucraino per entrare. Nello stesso villaggio vive Anastasia Čikalovec, la baba [nonna] Nastia. Ha 81 anni e ricorda molto bene quel periodo, in cui la sua vita e quella di milioni di persone cambiò per sempre.
«Mia sorella viveva a Kopači, a soli 4 km dalla Centrale», racconta lucidamente. «Il giorno dopo l’incidente evacuarono il villaggio e lei venne a vivere con noi. Arrivò in lacrime. Quella notte aveva sentito la tremenda esplosione, mentre qui non sapevamo ancora niente». Le autorità sovietiche mantennero il silenzio per più di una settimana. Il vento portò l’immensa nube radioattiva verso la Bielorussia, la cui frontiera si trova a pochi chilometri a nord. «Sgomberarono la nostra zona una settimana più tardi, il 4 maggio», ricorda baba Nastia. «Solo potemmo portare con noi poche cose che furono ammassate su un camioncino che serviva per tutti».
«Mio marito Nikolaj non poté venire subito con noi», aggiunge con aria maliziosa. «In quel momento era completamente ubriaco».
Baba Nastia racconta le sue storie nella sua piccola cucina, decorata con i tipici tessuti della zona. Sulla finestra si intravede una lettera arrivata dal Brasile. Proviene da Efrosinia, la sorella gemella di Nastia emigrata in Sudamerica subito dopo la Seconda Guerra Mondiale e sistematasi a São Caetano do Sul, nello stato di São Paulo.
Nel 1991 Nastia andò a trovare la gemella che la invitò a rimanere a vivere con sé. Ma Nastia rifiutò. «Qui avete tutte le comodità», le rispose. «Io sono una donna molto semplice ed ho bisogno di lavorare con le mie mani e di coltivare verdure nel mio orticello». E così baba Nastia lasciò la sorella in Brasile e tornò nel suo villaggio, vicino alla Centrale.
Brividi
Quando appare il cartello stradale con la scritta «ЧОРНОБИЛЬ» (Čornobyl’), questo il suo nuovo nome in lingua ucraina, un brivido corre sulla schiena. Questa cittadina ospita ancora qualche migliaio di persone e sorge a poco più di 10 km dalla Centrale, appena fuori dalla Zona in cui è proibito vivere.
A Černobyl’ si erge il monumento ai cosiddetti Liquidatori, le centinaia di migliaia di persone che nel 1986/87 tentarono di frenare l’inferno nucleare. Dopo aver spento i tremendi incendi, per lunghi mesi cercarono di bonificare la regione dai residui nucleari e parteciparono, in turni, alla costruzione del primo “Sarcofago” per coprire il reattore esploso.
Valorosi volontari e precettati arrivarono da tutta l’Unione Sovietica fino a questo sperduto lembo dell’Impero per combattere la grave emergenza. Ma le autorità si comportarono in modo criminale: nessuno spiegò ai Liquidatori i rischi a cui andavano incontro, né si preoccupò di fornire loro ed alla popolazione protezioni adeguate. Furono semplicemente mandati a morire. Qualcuno doveva farlo. «I robot mandati dai giapponesi e dagli statunitensi si fermavano dopo pochi secondi, solo noi potevamo lavorare là, sopra al reattore», racconta uno dei molti intervistati dalla scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič nel suo tragico libro Preghiera per Černobyl’.
Molti di loro morirono e altri ne soffrirono le conseguenze per sempre. Nell’operazione parteciparono anche dei piloti di elicottero che avevano combattuto nella guerra in Afghanistan. Ma questa guerra non si poteva vincere. Centinaia di camion, macchine, elicotteri, e tutto il materiale che venne allora utilizzato fu abbandonato in un’immensa e lugubre radura ad una trentina di chilometri.
Secondo le cifre ufficiali ci furono solo 31 morti per cause dirette, ma in questi anni decine di migliaia si sono spenti lentamente e lontano dai riflettori, soprattutto Liquidatori, membri delle loro famiglie e abitanti della zona. Si calcola che oltre quattro milioni di persone specialmente in Bielorussia ed Ucraina siano state raggiunte dagli effetti delle radiazioni che saranno trasmessi per varie generazioni future attraverso cancri, leucemie, malformazioni genetiche.
Černobyl’ costituisce una tragedia apocalittica che ancora sfugge alla possibilità dell’uomo di capire, una tragedia che si è sempre cercato di insabbiare.
Le crepe del “Sarcofago”
Slavutič, a circa 15 chilometri dalla Centrale, è la città più giovane dell’Ucraina. Venne creata dopo l’incidente e terminata nel 1998 per ospitare i lavoratori ed i servizi della Centrale. Ha oggi 27mila abitanti.
Alla fine del 2000 l’ultimo reattore nucleare ancora in funzionamento dei quattro preesistenti fu chiuso con una solenne cerimonia alla presenza del presidente ucraino Leonid Kučma. Enormi furono le proteste interne: il reattore forniva il 5% dell’energia del Paese e nella Centrale ancora lavoravano 9500 persone. Ora ne rimangono solo 4200 e si occupano soprattutto di progetti finanziati dall’estero.
Si tratta di lavori di manutenzione per la sicurezza dei tre reattori intatti. È necessario estrarre il combustibile ed i rifiuti solidi e liquidi per immagazzinarli in speciali contenitori riempiti di gas, chiusi ermeticamente ed in seguito sistemati nel cemento.
«Rimangono ancora 20mila metri cubi di liquidi radioattivi e 2.500 metri cubi di solidi», spiega Oleg Goloskokov della direzione della Centrale Nucleare di Černobyl’. «Prima del 2013 dovremo rimuovere il materiale combustibile da tutti i reattori, conservarlo per un periodo tra i 40 ed i 100 anni per vedere quali effetti si produrranno. Quindi si deciderà di conseguenza».
Le rivelazioni di Goloskokov sono allarmanti. «Il sarcofago ha delle crepe dalle quali ogni anno penetrano tra 2 e 3 mila metri cubi di acqua che entrano poi in contatto con il combustibile nucleare». Secondo il dirigente, per ora questo fenomeno non costituisce un problema, anche se «dentro la struttura ci sono ancora 200 tonnellate di combustibile nucleare ed altre 30 di polvere radioattiva: per il momento utilizziamo una soluzione di polimeri per evitare che si sparga in giro».
L’Ucraina non ha le possibilità per garantire la sicurezza dei lavori. Esiste un gruppo internazionale di Paesi donatori la cui assemblea si riunisce ogni tre mesi per analizzare la situazione e prendere delle decisioni, ma da un lato i problemi sono burocratici e dall’altro quella di Černobyl’ è una situazione che non si è mai verificata da altre parti nella storia. Non esistono dunque norme prestabilite da usare e decisioni sicure da poter prendere. Inoltre i donatori dei nuovi progetti legati al sarcofago esigono per i lavoratori elevate condizioni di sicurezza, estremamente complicate da soddisfare.
Solo il 17 settembre 2007 è stato finalmente firmato un contratto per la realizzazione di un nuovo Sarcofago tra la Centrale di Černobyl’ e il consorzio francese “Novarka” (composto da “Bouygues” e “Vinci”), alla presenza dell’ex Presidente ucraino Viktor Juščenko. La compagnia statunitense “Holtec International” costruirà invece un nuovo deposito per le scorie.
La nuova copertura consiste in un’enorme struttura d’acciaio, lunga 200 metri e larga 190, che sarà costruita lontano dalla Centrale e trasportata con un sistema di rotaie fino a coprire il reattore Numero 4. Il costo del faraonico progetto, che dovrebbe essere portato a termine nel 2012, è di svariate centinaia di milioni di euro e sarà finanziato principalmente dalla “Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo”.
La città fantasma
Uno degli impatti indiretti dell’esplosione si coglie nei 110 tra villaggi e cittadine in Ucraina ed altri 485 in Bielorussia che vennero evacuati dopo l’incidente. I loro nomi appaiono ora tra parentesi sulle cartine locali.
Di questi, la più importante era Pripjat’ che nel 1986 aveva 50mila abitanti. Pripjat’ sorge a 1,5 km dal reattore Numero Quattro ed è oggi una spettrale città fantasma. A 36 ore dall’incidente si procedette alla sua completa evacuazione, per cui si utilizzarono 4200 autobus. Un totale di 160mila persone furono sgomberate da questa zona «per alcuni giorni», dissero le autorità. Ma gli abitanti non ritornarono e da quel giorno tutto è rimasto uguale.
Si nota che Pripjat’ era una città benestante. Venne creata per ospitare i lavoratori e le loro famiglie nel 1970, quando iniziarono i lavori della Centrale. Pripjat’ costituiva un’isola di qualità, superiore al resto dell’Unione Sovietica. Gli appartamenti frettolosamente abbandonati, sono ancora pieni di impronte postume della quotidianità. Ovunque si scorgono oggetti semplici: giochi di bambini, foto, giornali Pravda di quel maledetto 1986.
La gente si portò con sé solo l’indispensabile. Nella notte che precedette l’incidente la signora dell’ottavo piano aveva appeso ad asciugare sul balcone il suo vestito blu. Incredibilmente l’abito si trova ancora sullo stesso balcone. Ha visto scorrere molte stagioni in quella posizione, osservato a poca distanza dal dannato reattore Numero Quattro.
Alcuni fiori bianchi e gialli sono caparbiamente germogliati facendosi strada nell’asfalto screpolato della deserta piazza principale di Pripjat’, proprio di fronte all’Hotel Polissya.
A poche decine di metri un parco di divertimenti. L’incidente ebbe luogo pochi giorni prima del Primo Maggio, la festa più importante dell’Unione Sovietica. Tutto era pronto per la celebrazione ed anche il nuovo luna park doveva essere inaugurato. Ma non si fece in tempo.
Gli autoscontri e la ruota panoramica giacciono ancora là, dimenticati come oggetti inerti. Arrugginiti, semicoperti dal muschio e dalle erbe cresciute, disegnano una cartolina in cui il divertimento è stato schiacciato dalla tragedia.
Anche dopo un quarto di secolo Černobyl’ non permette di guardare al futuro con ottimismo.
Truly IMPRESSIVE!!!
I MIEI COMPLIMENTI!!! BELLISSIMO REPORTAGE!!!
Sono senza parole, davvero tantissimi complimenti il reportage che riesce a trasmettere la dimensione della tragedia verificatasi.
Grazie.
Tutto questo dovrebbe far riflettere, soprattutto tutti quei politicanti che sono a favore del nucleare. E’ giunto il momento di pensare alle fonti alternative, prima che sia troppo tardi. Complimenti Ale per i tuoi reportage. Li leggo sempre con interesse. Saluti dal tuo “vecchio” Capitano.
grazie per il commento e per le letture, grande Capitano!
a
Ciao Ale, è sempre interessante e bello rileggere questo articolo.
Grazie.
eh, lo so che voi ne avevate letto alcune versioni precedenti gia’ molti anni fa…
😉
a
Complimenti per il bellissimo reportage che rè riuscito a comunicare le drammatiche emozioni vissute dagli abitanti del posto. Grazie per aver condiviso questo lavoro
Gabriele
grazie gabriele per i complimenti, sempre bene accetti!
ciao e a presto,
a