In treno, da qualche parte in Turchia, venerdì 14 agosto
Al mattino presto prendiamo un taxi per arrivare a Karaköy, poco oltre il ponte di Galata. Da lì salpano i battelli per raggiungere Haydarpaşa, la stazione di İstanbul che si trova già in Asia e da cui partono i treni per l’Oriente.
Arriviamo un po’ prima e riusciamo anche a fare colazione. Ovviamente sul posto c’è già qualcuno che pesca.
Il battello a due piani è semivuoto. L’aria frizzantina del mattino sul mare ci sveglia immediatamente, ma è soprattutto la luce abbacinante a farci godere in pieno dell’attraversamento del Bosforo.
Anche Haydarpaşa è quasi vuota a quest’ora.
Stavolta rimaniamo molto sorpresi vedendo il nostro treno, ma in senso positivo.
Di un bianco smagliante, il suo interno lo fa sembrare ad un albergo semovente.
C’è anche il tempo per acquistare le ultime derrate per il viaggio, e come sempre se ne occupano S. e Furio. Alle otto in punto il treno parte.
Passiamo anche lo stadio del Fenerbahçe, il “Şükrü Saracoğlu”, riammodernato di recente anche per ospitare la finale dell’ultima Coppa UEFA della storia, nel maggio di quest’anno.
Per moltissimo tempo ci accompagnano i suburbi della parte asiatica di İstanbul che sembra infinita. Poi il treno costeggia il mare.
Un’altra sorpresa è che il vagone ristorante non è così male come si pensava, considerando che ci troviamo su un treno. E poi, oltre al sempiterno tè, serve anche birra.
I soliti kebab, köfte e polpettine varie cotte alla piastra non sono proprio male. In questo giorno e mezzo su rotaie le assaggiamo in varie occasioni.
Ad un certo punto su una collina sopra ad una galleria si vede un soldato turco in armi che non si sa bene se saluti o se fermi il nemico.
Il viaggio è lungo e bisogna prenderla con calma. Per poco avevamo dimenticato la lentezza dei trasferimenti. Gli ultimi due giorni ad İstanbul sono stati così intensi da sembrare una settimana.
Spesso viaggiamo paralleli all’autostrada per Ankara, dal 1923 diventata la capitale del paese per volere di Atatürk: dopo molte ore di viaggio finalmente appare all’orizzonte.
Cala la sera. Grazie all’ultima sosta, il frigo del nostro scompartimento è di nuovo pieno.
Per cena non ci facciamo mancare niente: il buonissimo formaggio gentilmente offerto da “Carniagricola” con pere e uva, insalata con pomodori, cetrioli e formaggio turco, olive locali e birra.
Per dolce lo slatko, ormai all’ultimo respiro, con yogurt turco. Con innaffiata finale di šljiva di Deda Ljuba che terminerà sul treno.
È di nuovo mattina. Il nostro treno è una finestra su una Turchia rurale e sempre più remota, e penetra lentamente in un paesaggio spesso uguale a se stesso.
Ormai ci troviamo in Anatolia, villaggi sperduti con un unico minareto, qualche volta con case di fango, campi coltivati, mucche al pascolo, grano dappertutto, ogni tanto una stazioncina persa nel nulla.
Alcune volte i paesaggi sono lunari, altre grano e orzo rendono il territorio dorato. Poi appare qualche corso d’acqua e allora ci si incunea in mezzo a canyon su torrenti di acqua dal colore blu intenso.
Qualcuno di noi inizia a sclerare, sentendosi come un gatto in una scatola di cartone. Ci metterà qualche giorno per riprendere il metabolismo normale. Altri ne approfittano per dormire, riposare e leggere.
La Turchia è lunghissima e ce ne stiamo accorgendo sulla nostra pelle. Questa era una delle idee del viaggio: in aereo si può arrivare in qualsiasi punto in poche ore. Invece viaggiando via terra, pur con molta lentenzza, ci rende conto delle distanze.
La fauna umana sul treno è estremamente variegata. Ci sono nonne con nipotino, qualche uomo d’affari turco che nel bar si concede una birra. Si vede una famigliola che sale nella campagna profonda e che forse rende visita a qualcuno in qualche non meglio identificato villaggio sulla linea ferroviaria. In un’ennesima visita al vagone ristorante appare una ragazza che studia ad İstanbul e che vorrebbe andare a fare l’Erasmus al Politecnico di Milano.
Dopo Erzincan il paesaggio si fa più dolce e si vedono altri campi coltivati con i caratteristici covoni accatastati e centinaia di arnie per il miele.
In questa zona si ripetono all’infinito solo campi, covoni e minareti. Ogni tanto qualche carro trainato da cavalli, bambini con vestiti trasandati che salutano il treno.
Parlando con il barista scopriamo che abbiamo già accumulato almeno quattro ore di ritardo, per cui alla fine arriveremo ad oltre 40 totali.
Scende il secondo tramonto sul treno. A quest’ora è pieno di corvi e merli, come in Kosovo.
Ad Erzurum, l’ultima grande città prima di Kars a circa cinque ore dal nostro obiettivo, scendono anche le uniche persone rimaste sul nostro vagone: tre statunitensi, che successivamente arriveranno anche loro in Georgia. Come previsto, da queste parti turisti non ce ne sono proprio.
Nel negozietto della stazione troviamo un simpatico signore che vende di tutto. Parla solo qualche parola di tedesco, per aver lavorato in Germania molti anni fa, ma anche se non ci si capisce molto ci saluta calorosamente.
Nonostante sembra di trovarci in un posto lontanissimo da tutto, all’uscita della città, proprio vicino alla strada ferrata, si vede il grande capannone di “Carrefour”.
Dopo l’ultimo spuntino con formaggio cremoso, pomodori e pane si accendono le luci sui minareti e sprofondiamo nel buio. Tra poco saremo a destinazione.
bellissimo viaggio anche dal finestrino.
molto buono il treno però, pensavo peggio.
faceva caldo dentro o c’era l’aria condizionata?
avevate pure il frigo-bar nello scompartimento!
e quel mega panino, chi lo preparava con quella t-shirt venetoide? andrea? non era mica un turco? forse un kurdo, immigrato a vicenza dove ci sono moltissimi serbi!
avete trovato anche gli uccelli di kosovo polje…emigrati fin là chissà come, pure loro…
ottimo un pò di ramadan alla friulana visti gli sviluppi caucasici.
si, bellissimo dal finestrino!
come raccontavo nella storia, con nostra grossa sorpresa il treno era praticamente un albergo su rotaie.
poi a me piace molto viaggiare in treno. ho scritto, letto, parlato, dormito, mangiato, bevuto, potendo anche muovermi.
nel 2003 avevo fatto lo stesso numero di ore in uno strettissimo seggiolino di autobus, neanche da paragonare!
c’era anche l’aria condizionata, frigo bar (pieno).
non era andrea con la maglietta.
si, li uccelli di kosovo polje… infatti da quell’uccello (kos in serbo) deriva il nome della provincia…