L’obiettivo principale di questa spedizione è la Georgia, dove arrivai già nel 2003 sempre via terra, ma con un autobus diretto İstanbul-Tbilisi. Questo è il resoconto di quel primo viaggio, insieme al racconto delle secolari tradizioni legate al vino.
Da anni sentivo il richiamo del Caucaso e conoscevo l’importanza che la vigna riveste in Georgia. Ma neanche nei sogni più reconditi potevo immaginare un paese così profondamente legato al vino ed un posto in cui la bevanda di Bacco è bevuta in tali quantità, neanche arrivando dal Friuli.
Esistono diversi modi per arrivare in Georgia. Ovviamente uno dei più complicati è via terra, usando mezzi pubblici ed evitando gli aerei che ti trasportano troppo velocemente senza riuscire a sentire le distanze. Sarà forse difficile e faticoso ma anche enormemente più interessante.
Il viaggio si rivela dunque folle: prima verso la Serbia in treno, poi in autobus fino in Romania, quindi da Bucureşti di nuovo in treno per 18 ore attraversando la Bulgaria fino a İstanbul.
Nella capitale turca riesco, non senza problemi, ad ottenere il visto per la Georgia [allora era necessario, ora non più], anche se sul passaporto rimane traccia solo di 40 dei 60 dollari che ho effettivamente pagato all’ambasciata.
Qualcuno mi aveva parlato di un bus diretto İstanbul-Tbilisi, una vera chicca! Alla stazione degli autobus sono fortunato: trovo subito l’ufficio della compagnia turca Mahmudoğlu in cui mi dicono che proprio all’indomani ne parte uno. Il biglietto costa solamente 30 dollari, ma mi avvisano che il viaggio sarà lungo, 38-40 ore con due notti a bordo visto che la partenza è prevista per le dieci di sera. Nema problema.
All’indomani, mi godo le ultime ore nell’antica Costantinopoli e dopo il tramonto sono pronto a partire. Cerco subito un posto vicino al finestrino; sembrava che l’autobus fosse vuoto, invece poco prima della partenza si riempie completamente. Stanco come sono mi addormento subito, anche se riesco solo a sonnecchiare tutta la notte tra i frequenti sconquassi.
Tutti i passeggeri sono georgiani, pochi i giovani. Molti tornano dalla Turchia dove sono stati a raggranellare qualche soldo, vista la misera economia del loro paese.
Alcuni turchi mi avevano avvisato che «la gente dall’altra parte» poteva creare qualche complicazione. Tuttavia, anche stavolta gli unici problemi sono quelli gastrici. Al mattino la mia identità viene subito scoperta e Sergo e Gia, due dei viaggiatori cinquantenni, mi adottano subito fornendomi carne e vino a profusione. Cerchiamo di comunicare in un miscuglio di russo (da parte loro) e serbo (da parte mia), ma sono poi improvvisazione e vino a prestare un prezioso aiuto.
I paesaggi che si vedono dal finestrino lasciano il segno. Durante tutta la giornata la corriera accompagna la lunghissima costa turca del Mar Nero con i suoi forti colori ingentiliti dal sole primaverile.
Ben presto le provviste finiscono e così ad ogni fermata Sergo e Gia mi invitano a brindare con loro, anche se nella provincia turca non è sempre facile scovare alcolici. In una sosta per il pranzo in un villaggio perso sulla costa, Sergo ed un altro viaggiatore più giovane si buttano in mare come si conviene ad ogni homo sovieticus quando scorge uno specchio d’acqua.
Nel frattempo Gia chiede delle birre fresche al gestore del ristorante che in un primo momento dice di non avere. Gia, che lo conosce dai suoi frequenti viaggi, gli intima di tirarle fuori e alla fine riusciamo a brindare.
L’ultima sosta prima del confine è Trabzon, la celebre Trebisonda, con la solita statua di Atatürk in bella mostra, come dappertutto in Turchia.
Poi, la seconda notte cade molto presto ma sarà lunga. I controlli in frontiera tardano quattro ore: dalla parte turca non ci sono problemi, ma da quella georgiana impieghiamo un’infinità di tempo durante il quale i miei compagni di viaggio sono trattati brutalmente dalle loro stesse autorità. Decine di persone si ammassano sotto le stelle verso un cancello che si apre con il contagocce. Pazienza infinita.
Passato il controllo ci si aspetta per l’ultimo goccio: mi viene offerto anche un panino ed io rispondo con la rakija serba.
Al secondo mattino con il sole già alto ed ancora assonnati ci fermiamo in un villaggio sulla strada per la capitale. Un bidone sulla strada costituisce una stazione di servizio improvvisata e il primo contatto con le asperità della lingua georgiana.
Finalmente il bus arriva a destinazione, Tbilisi.
In Georgia non mancano occasioni per incontrarsi con decine di persone nella supra, l’incontro a tavola. Il popolo georgiano non teme concorrenza per calore ed ospitalità, aspetti che si rivelano con tutta la loro forza intorno ad un tavolo, il vero centro della vita comunitaria in cui il vino è il protagonista assoluto.
Secondo la leggenda, le tradizioni vinicole sarebbero nate proprio qui e la radice indoeuropea della parola “vino” proverrebbe dal georgiano. Sia vero o no, il vino è il protagonista della tavola e del paese. Non ci sono sicuramente dubbi invece su quale sia il paese in cui se ne beve di più.
Qui il culto per Bacco è antichissimo ed il vino è parte integrante della storia e dell’identità georgiana, anche perché la Georgia si è sempre ritrovata a stretto contatto con popoli musulmani. Si racconta che nella loro avanzata i soldati persiani distruggevano tutte le vigne che trovavano sul loro cammino, ma i georgiani le ripiantavano regolarmente.
Alla scoperta delle tradizioni georgiane mi guida Giorgi, innamorato del suo paese e diplomato nella locale scuola di cinema, una delle più famose dell’ex Unione Sovietica. Giorgi viene a prendermi in stazione e mi porta nell’appartamento in cui vive con la sua deda, (“mamma” in georgiano) a Gldani, un quartiere popolare alla periferia della capitale. Anche il suo palazzo, come gli altri, cade a pezzi: sono i classici bloki di appartamenti nel più tipico stile socialista sovietico.
Sul piccolo tavolo della cucina ci attendono già salumi, formaggio, focacce, carne e ovviamente una caraffa di vino fatto in casa, bianco stavolta. Inizia la prima lezione dalla quale mi faccio una vaga idea su cosa mi attenda nei prossimi giorni. Giorgi alza il calice colmo fino all’orlo, iniziando un discorso sull’amicizia e di come ci siamo conosciuti attraverso Stefàno, un amico comune. Alla fine, brinda dicendo: «Gaumardjos!», “salute!” in georgiano.
«Ora bisogna bere il bicchiere fino in fondo, d’un fiato», mi spiega, «Lo si mostra poi all’ingiù per far vedere che è vuoto».
Non ci vuole molto per capire che da queste parti il brindisi assume delle caratteristiche tradizionali divenendo qualcosa di sacro.
«La figura principale, nonché colonna portante della società georgiana è il tamadà, la persona scelta per essere il capo della tavola», mi avvisa subito Giorgi. Il tamadà, se gli ospiti sono molti aiutato dai suoi assistenti, merikiphe, è colui che dà il ritmo ai brindisi che si susseguono continuamente per ore e ore: deve possedere quindi capacità dialettiche non comuni, senso dell’umorismo e, evidentemente, essere in grado di ingerire svariati litri di vino nello stesso incontro. Gli ospiti, la patria, la famiglia, l’amicizia, i morti, l’amore sono tra gli infiniti temi ai quali si brinda. Dopo un’introduzione del tamadà che può durare qualche minuto, tutti i commensali bevono d’un fiato il loro bicchiere di vino, sempre colmo fino all’orlo.
Questa operazione si ripete durante ore e ore in cui appaiono anche altri recipienti, regolarmente riempiti e svuotati in un colpo solo. Anche se ci sono solo due persone, come in questo caso a casa di Giorgi, fino all’infinito, c’è sempre un tamadà. Di solito è il padrone di casa, o chi invita, o il capo famiglia: è riconosciuto come tale da tutti e può contare sul potere assoluto sulla tavola. Diverse le varianti e le figure retoriche: quando il tamadà dice «Alaverdi!» rivolgendosi ad un ospite, significa che questo ha il diritto di proporre un brindisi.
Dopo l’indipendenza sotto la chiesa di Mama Daviti (Padre David) è stato creato un cimitero per le figure illustri del paese. Non è una sorpresa notare le molte tombe abbellite con grappoli o altre forme che ricordano la bevanda nazionale, come quella dell’indimenticato attore di teatro Sergo Zakariadze.
Terminato il pranzo ci avviamo verso il centro, o almeno tentiamo di farlo. Prendiamo l’ascensore che fa un cigolio sinistro, ma quando la porta si apre veniamo immediatamente bloccati da Chabuka, un vicino di Giorgi che abita al 14º piano: «E lui sarebbe quello di Udine!», esclama appena ci vede.
Chabuka, capelli corti e neri, tipico volto caucasico, ha un anno meno di me ma sembra più vecchio. Due giorni fa ha avuto una bambina e ci rapisce immediatamente: «Dobbiamo andare a festeggiare!», dice. Giorgi annuisce e rientriamo subito nell’ascensore. Appena nell’appartamento riinizia il rituale: anche stavolta il vino è bianco e fatto in casa e subito Chabuka assurge al ruolo di tamadà della nostra piccola riunione. Il primo brindisi è ovviamente per la bambina, ma passando ai successivi sembra essersi dimenticato il motivo originario per il quale siamo venuti. Per fortuna siamo aiutati da patate novelle al prezzemolo, formaggio e verdure.
Imparo subito delle nuove variazioni sul tema: Chabuka mi fa bere dal bicchiere e io faccio lo stesso con lui, sempre fino in fondo (questa figura retorica si chiama iglibatsuri), oppure facciamo un brindisi in tre incrociando le nostre braccia in una specie di ruota (vakhtanguri).
Ben presto i due iniziano con le tipiche canzoni georgiane ispirate alla tradizione locale di canti polifonici. Passiamo un’ora e mezza a colpi di brindisi, e poi cerchiamo di riprendere il nostro piano originario e di visitare il centro.
Mi sono reso conto che molti nel quartiere sanno della mia presenza, presumo grazie agli tsmebi (plurale di tsma, “fratello” in georgiano), dei perdigiorno che dalla mattina alla sera stazionano proprio all’entrata del palazzo di Giorgi. Stanno sempre seduti ad un tavolaccio, ovviamente ingurgitando quantità industriali di alcolici, vino ma anche la chacha, la grappa locale che sembra alcool puro.
Li avevo conosciuti appena arrivato ed avevo capito di essere entrato nelle loro grazie quando mi avevano gridato: «Tsmaoooooooo!» (che poi sarebbe il vocativo di tsma). Ora è pomeriggio e gli tsmebi Boria, Koba, Mikho, Grisha che dimostrano più anni di quanti ne abbiano in realtà sono ancora in sé. Uno di essi invece ronfa in un’improbabile posizione su un’asse supportata da casse girata all’incontrario. Tutt’intorno, un’infinità di altre bottiglie di qualsiasi genere.
Salutati gli tsmebi riusciamo finalmente a dileguarci verso il centro storico.
Nel tardo pomeriggio Nana, un’amica di Giorgi, ci invita a casa sua per farmi assaggiare delle specialità georgiane. Accettiamo di buon grado nonostante il poco appetito, visto quello che è accaduto solo poche ore fa.
Nana è pianista e vive con i genitori. Per l’occasione è venuta anche Naili, una sua amica molto carina. Ceniamo tra di noi nella sala, la mamma ci saluta ma stranamente non vediamo il padrone di casa, Vasiko. Anzi, dietro alle porte chiuse con i vetri sfumati si indovinano momenti agitati. Sembra che la 25enne Tamuna, sorella minore di Nana, abbia appena annunciato l’arrivo insieme al ragazzo che chiederà la sua mano al papà, il quale ovviamente era all’oscuro di tutto. Finita rapidamente la cena, dico a Giorgi che sarebbe il caso di salutare e di andarcene. Proprio in quel momento si sente il campanello… «Troppo tardi», mi spiega Giorgi, «è maleducazione andarsene mentre sta arrivando qualcuno!».
Facciamo buon viso a cattivo gioco. La ragazza arriva con il promesso sposo, tale Kakha, un tipo sulla quarantina calvo e panciuto, accompagnato da un tizio più giovane e da una signora. Nonostante la tensione, le regole dell’ospitalità georgiana impongono al padre di accettare gli ospiti con tutti gli onori. In men che non si dica viene preparato un tavolone al centro della sala, riempito con ogni ben di dio arrivato in pochi secondi da non si sa dove: patate, pollo, formaggio, salumi, pesce affumicato, affettato, il tutto ovviamente innaffiato dal vino, tantissimo vino.
Questa volta è rosso, in bottiglia, dettaglio che tradisce la condizione più agiata della famiglia in cui ci troviamo. Il tamadà si rivelerà il migliore visto durante la mia breve permanenza georgiana, facendo uso massiccio del tradizionale corno chiamato khanci.
Anche Giorgi come sempre dimostra le proprie capacità “tamadesche”. Ad un certo punto la mamma Dali si mette a suonare il phanduri, uno strumento tipico, una specie di chitarra di legno a tre corde accompagnata al canto dalle figlie.
Finalmente, esausti, salutiamo la famiglia e torniamo a piedi verso casa.
Spiego a Giorgi quanto mi senta allucinato: in questo paese quando si esce di casa si può star sicuri che ci si ubriacherà con qualcuno, anche se non si sa con chi, dove o quando. Le strade non sono illuminate e stasera non si vede la luna. Mentre esprimo questi concetti nel buio più assoluto ormai vicini al blok di Giorgi un urlo conosciuto squarcia la notte: «Tsmaaaaaooooooooooooo!». Tre tsmebi sono ancora nella loro postazione e ci offrono di fare l’ennesimo brindisi…
Il giorno successivo un amico di Giorgi ci ha invitati a festeggiare il suo compleanno nella casa di campagna della famiglia ad Akhatani, un villaggio nei pressi di Saguramo a una trentina di chilometri dalla capitale.
Per prendere la maršurtka ci rechiamo alla stazione degli autobus, un vero e proprio museo a cielo aperto in cui si vende di tutto.
Mentre qualcuno gioca a tabli (una specie di backgammon) Giorgi compra due biglietti in un improbabile sportello che per segnalare l’ora esatta ha una sveglia rosa rivolta verso il passeggero.
La maršrutka arranca sulle strade in uscita dalla capitale che salgono verso le colline circostanti e non si sa bene come riesca a farcela. Ci lascia in un villaggio in cui verranno a prelevarci. Siamo diventati l’attrazione dei cinque anziani seduti su una panca di legno, mentre una decina di maialini scende la strada.
Finalmente il festeggiato arriva e ci porta a casa. La maggior parte delle donne sono già da un po’ nel giardino a chiacchierare tra loro, mentre all’interno i brindisi si susseguono senza sosta. La tavola è lunghissima ed imbandita come non mai: formaggio, fegatini, il khachapuri (una focaccia ripiena di formaggio), verdure, conserve, cipolline, con la particolarità che tutto è fatto in casa, pane compreso, e ovviamente il vino. La ventina di commensali stanno bevendo da un pezzo. A capo tavola il tamadà, Nodari, un collega poliziotto già abbastanza brillo, con alla sinistra Kakha, il festeggiato.
Veniamo subito forniti di bicchieri e dobbiamo recuperare il tempo perduto. L’atmosfera è gioiosa e ovviamente l’ospite venuto da lontano si trova al centro delle attenzioni alcoliche della tavolata.
Stanno preparando anche i classici mtsvadi (in russo šašliki), gli spiedini di maiale o di montone che in queste zone assumono dimensioni vicine al metro. Una signora infilza la carne nelle spade, poi uno zio la cucina alla brace in giardino per rientrare poi trionfale con tre spade di carne per ogni mano.
I brindisi continuano. L’unico che si astiene è un altro amico, David, dice che non può bere perché fa karate a livello professionistico e sogghigna vedendo gli effetti nefasti sugli altri commensali.
La famiglia è composta principalmente da poliziotti, alcuni di essi in divisa. Sono originari dell’Abkhazia, regione dalla quale sono stati cacciati. Ovviamente uno dei brindisi più sentiti riguarda il recupero della terra irredenta.
Nel frattempo escono un’infinità di nuovi recipienti, dai tradizionali e sempre presenti corni, a tazze, bicchieri più grandi. Ad un certo punto il festeggiato con i suoi cugini si mette a cercare qualcosa nelle varie credenze della casa. Quando lo trova quasi svengo e chiedo a Giorgi: «Non dirmi che serve proprio a quello che penso?!». Si tratta di una terrina di insalata… e sì, viene anch’essa riempita di vino e svuotata d’un fiato!
Prima dal tamadà, poi uno per volta da ognuno dei commensali, me compreso.
Non pensavo di farcela, ma appena scolata la terrina (sic) devo uscire a prendere un po’ d’aria e lo faccio senza neanche chiedere permesso come avrei dovuto. Con la testa leggermente annebbiata riesco comunque a godermi il panorama con le colline in successione che si stendono a perdita d’occhio verso Tbilisi.
È ancora pomeriggio e si continua a brindare fino a notte inoltrata, anche se da tempo il tamadà ha perso ogni controllo.
Lascia un commento