Venerdì 23 novembre 2012
Lo avevano minacciato ed hanno mantenuto le promesse. Una giornata intera a parlare di calcio, ma in modo diverso dal solito. Il primo sabato di novembre un manipolo di entusiasti, tra i quali il collettivo di scrittori Wu Ming, ha organizzato a Bologna un convegno molto denso ed interessante a cui ha partecipato un nutrito gruppo di futbologi alcuni venuti apposta da diverse città d’Italia. Un successo.
Mascotte e auspicio del movimento il sempre presente São Pedrinho, che esemplifica il motto «il pallone al cubo». Qui il blog di Fútbologia.
Il ritrovo è fissato al mattino presso la Sala Borsa,
uno storico palazzo in pieno centro a Bologna,
il cui interno rivela un centro culturale sorprendente.
Il convegno si svolge nella Sala Biagi.
All’inizio dell’intensa giornata, l’introduzione di Luca Di Meo (Wu Ming 3) e Christiano Presutti (xho) che lanciano una sorta di manifesto di Fútbologia.
Spiegano che il progetto non ricerca un approccio nostalgico: non è vero che in passato era tutto positivo e, anche se la mitologia ritorna spesso, le magagne nel mondo del calcio esistono da sempre,
I Wu Ming sottolineano soprattutto una linea ben precisa. Quando si parla di pallone ci si muove dentro una fortissima contraddizione: il calcio da una parte racconta cultura popolare, miti, forme di aggregazione e di educazione, ma allo stesso tempo riproduce anche un sistema di potere, l’uso politico, una droga sociale, ovvero rappresenta contemporaneamente il meglio e il peggio della società. Fútbologia si muove costantemente dentro questa dicotomia e la sua ricerca si orienta sempre verso un approccio sistemico che non dimentichi mai questo iato.
Dare lo spazio alla parola sul calcio nasce dalla banale considerazione che qui da noi il livello del discorso risulta spesso basso e deprimente. Ma il declino del nostro calcio secondo gli organizzatori comincia molto prima, sviluppandosi su due assi portanti, beceri e continuati: le liti arbitrali e un infinito calciomercato, ancor più ridicolo visto che nessuna società attualmente possiede un euro. Il risultato sono tre giornali sportivi e decine di trasmissioni radio e televisive riempiti dal nulla.
Non è sempre stato così: negli anni Cinquanta e Sessanta scrivevano di calcio tra gli altri Brera (di cui ricorre in questi giorni il ventesimo anniversario della scomparsa), Ghirelli, Arpino. Era una palestra di penne nata anche al di fuori sport, ma che lo raccontavano raggiungendo picchi linguistici notevoli.
Il punto cardine del progetto è la valorizzazione dell’intelligenza che si muove intorno al calcio e alla parola ad esso collegata. Anche oggi vi si muovono persone in gamba; un esempio è il cosiddetto New Football Writing, attivo soprattutto in lingua inglese già da una ventina d’anni. Si tratta di un modo di avvicinarsi alla magia e ai problemi del pallone attraverso un approccio comparatista, in relazione a cultura, società ed economia dei paesi trattati. In summa è questo l’aspetto da curare: parlare di calcio per affrontare molteplici argomenti e, viceversa, parlare d’altro arrivando al calcio, sempre tenendo conto della contraddizione di cui sopra.
Estremamente stimolante l’intervento di John Foot, un autore inglese che ha vissuto a lungo in Italia e il cui nome, visto l’argomento di cui si tratta, sembra uno pseudonimo…
John è tra l’altro autore di due corposi volumi, Calcio. 1898-2007. Storia dello sport che ha fatto l’Italia e Pedalare! La grande avventura del ciclismo italiano (entrambi editi da Rizzoli), di fatto un compendio della cultura pop italiana, il lavoro di uno storico di professione presentato però in un contesto narrativo e con microstorie.
Questo primo intervento tratta dunque il calcio da una prospettiva storica contemporanea e comparata, ma esterna al mondo del calcio: il punto di vista di uno storico e per di più straniero.
Eccellenti molti dei momenti della sua esposizione, come gli apprezzamenti sulla storia linguistica del calcio, con il suo esempio di inglese arrivato in Italia nel 1988 che ha imparato la nostra lingua anche attraverso la Gazzetta, al bar e dal barbiere: il calcio presenta un corposo glossario con un suo linguaggio specifico di parole, un fenomeno mai del tutto investigato.
Ma anche le prime esperienze a San Siro, con gli ultras che non vedevano la partita per orientare le coreografie e i canti dei tifosi, un mondo nuovo rispetto all’Inghilterra e che John cominciava a studiare. Al contempo la difficoltà di trovare riferimenti accademici seri al riguardo, e la necessità di risultare credibile nell’ambito universitario: spesso non veniva preso sul serio, anche se la profondità degli argomenti in questione erano molto più rilevanti di seriose ricerche in altri ambiti. Secondo le sue stesse parole, «non si può capire la società italiana del Novecento senza analizzare anche la cultura popolare rappresentata da calcio e ciclismo».
Dall’altra parte John osserva come sono cambiate negli ultimi anni le forme di comunicazione legate al calcio nel nostro paese: il modello del litigio in tv urlato e cafone iniziato negli anni Ottanta con Biscardi, la Fininvest e le tv locali risulta ora dominante ed è diventato anche la matrice dei dibattiti politici che ancora oggi imperversano nelle serate televisive.
Come contraltare viene presentato un toccante filmato sul modello opposto che praticamente non esiste più, quello di Beppe Viola, indimenticato giornalista, ma anche geniale realizzatore di cultura in ambiti diversi (scomparso ormai trent’anni fa, il 17 ottobre 1982).
È sabato e nella pausa pranzo le zone pedonali del centro di Bologna sono intasate di gente.
A pomeriggio la Sala Biagi è ancor più gremita,
forse merito anche della presenza di Paolo Sollier e Valerio Mastandrea all’opera in uno strano dialogo. Si tratta stavolta un approccio da dentro il mondo del calcio, impegnato civilmente.
Più che per le su gesta di calciatore negli anni Settanta (Perugia, Rimini, Pro Vercelli, Biellese) Sollier è conosciuto per il suo Calci e sputi e colpi di testa pubblicato da Gammalibri nel 1976, un periodo sicuramente conflittuale. Nel libro ebbe il coraggio di trattare il ruolo di calciatore come se di un qualsiasi altro mestiere si trattasse, esprimendo liberamente le proprie idee: fece discutere non poco, non solo per il contenuto politico (Sollier era militante di Avanguardia Operaia) ma anche per alcuni temi che 36 anni dopo sono ancora tabu, tra i quali la libertà di esprimersi su certe tematiche, l’omosessualità nel calcio («ero nel contempo accusato di essere omosessuale ma anche femminista», spiega). Da allora Paolo non ha mai abbandonato la pratica della parola, anche letteraria.
Sollier sottolinea che oggi un percorso come il suo sembra improponibile, anche perché la vita dei calciatori è più difficile di allora, quando si arrivava a giocare in Serie A o B quasi per caso: oltre alla pressione estrema, ora molte carriere sembrano quasi programmate.
È ovvio che le epoche sono profondamente diverse, quasi tutti i calciatori durante la loro carriera pensavano a che lavoro avrebbero fatto dopo. Mentre partecipava a dei provini (venne scartato dalla Lazio) il giovane Sollier lavorò per nove mesi in fabbrica alla FIAT.
Ma anche il tifo è ovviamente cambiato, e si entra qui in un territorio polemico. Secondo Mastandrea, tifoso viscerale della Roma, non si usa più la goliardia per parlare di calcio, soprattutto in un momento in cui le trasferte non esistono quasi più. Secondo l’attore, sensibile a certi temi, si tratta anche di uno snaturamento sociale: quando le curve recupereranno il loro spazio forse la società ne trarrà giovamento.
Da parte sua Sollier critica l’approccio militarizzato delle autorità riguardo al tifo: «La Tessera del tifoso è una cagata», afferma rotondamente. Aggiunge però che una via per estirpare forme di violenza è la responsabilizzazione dei gruppi di tifosi che in alcuni casi hanno avviato esempi di impegno sociale, come quelli del Perugia o del Venezia. Sarebbe interessante stimolare tale partecipazione.
Ma è l’intero panorama attuale a risultare tragico: l’avvento delle partite in televisione hanno portato a un cambiamento epocale, delle abitudini e ma anche dell’identità calcistica. Non esiste più una giornata unica, con altri effetti collaterali nefasti: per esempio molti giocatori recitano in campo, anche i modi di esultare sembrano preparati e si poi ritrovano nei ragazzini che li vedono in tv e li imitano.
L’atto conclusivo del convegno di Fútbologia riguarda l’aspetto più prettamente letterario del calcio presentato attraverso il film Il Mundial dimenticato di Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni, alla presenza di quest’ultimo.
Si tratta di un “falso” documentario narrativo, un genere conosciuto all’estero come Mockumentary, che presenta avvenimenti come se fossero reali ma invece non lo sono.
Il film si ispira chiaramente ai racconti del grande Osvaldo Soriano (soprattutto a Il figlio di Butch Cassidy) lo scrittore con cui, come capita spesso in America Latina e non solo, il calcio diventa opera letteraria. Racconta l’incredibile storia dello sconosciuto Mondiale “ufficioso” che si svolse in Patagonia nel 1942. La pellicola è molto godibile e con svariati riferimenti alla storia del calcio nello stile fantastico e del realismo magico.
Il film dopo la presentazione a Venezia 2011 ha purtroppo avuto una pessima distribuzione in sala. Questo è un esilarante corto realizzato per lanciare il film in cui Katsuro Matsuda, un insegnante di lingue giapponese, partecipa a un quiz che potrebbe fargli vincere 100mila yen. «Dove si svolse il Mondiale di calcio del 1942?» è la domanda trabocchetto alla quale il signor Matsuda risponde sicuro: «In Patagonia». Secondo gli organizzatori ha perso ma lui inizia una battaglia per avere il premio e intanto si incatena davanti ai giornalisti…
La parte ufficiale del convegno finisce qui, ma non la lunghissima giornata che, con la sera ormai scesa sulle Due Torri,
continua con altre chiacchiere informali al Centro Sociale Bartleby,
la successiva visione di Juventus-Inter tra vicendevoli sfottò,
e musica futbologica fino a tarda ora a cura di Wu Ming 5.
Bologna-Udinese e ancora la Tessera del Tifoso
Per caso la domenica si gioca Bologna-Udinese, quasi che gli organizzatori avessero pensato alla mia visita. Al mattino sempre in centro a Bologna si vedono messaggi,
e inviti vari.
Una rapida capatina in una classica trattoria cittadina,
per un prelibato tris.
L’arrivo al “Dall’Ara” è accompagnato dai famosi archi.
Saluti dei tifosi bolognesi a Helmut Haller, scomparso da poco.
La gente è già allo stadio,
ma purtroppo avendo dimenticato a casa il mio abbonamento dell’Udinese non riesco a comprare un biglietto per entrare: per la curva ospite non ne vengono venduti il giorno della partita, ma essendo residente in Friuli non posso acquistarne negli altri settori. Amici friulani che vivono invece in Piemonte non hanno nessun problema ad entrare nella curva del Bologna.
Non mi resta che vedere la partita proprio di fronte allo stadio ma in un bar,
gestito addirittura da cinesi (!) anche se affollato da dei veri tifosi rossoblù; una situazione quasi futbologica. Per la cronaca, la partita è risultata inguardabile con l’Udinese che con molta fatica è riuscita ad agguantare uno striminzito pareggio grazie al solito Totò Di Natale.
È vero, è colpa della mia memoria che inizia a perdere colpi, ma anche dell’assurdità di una situazione ribadita in più occasioni anche su questo sito. Ha proprio ragione Sollier, «La Tessera del tifoso è una cagata».
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