11 December 2024

Scontri in Kosovo dopo Serbia-Turchia. Mitrovica, città divisa, e le enclave serbe

Giovedì 16 settembre 2010

Al termine della recente semifinale dei Mondiali di basket si sono verificati degli scontri a Mitrovica (Kosovo e Metohija). La città è famosa per essere divisa tra serbi (a nord dal fiume Ibar) e albanesi (sulla riva meridionale). Gli albanesi sono scesi in strada a festeggiare la vittoria dei turchi (sic) cercando di attraversare il ponte che divide le due comunità per raggiungere la parte serba: cinque i feriti, tra i quali un gendarme francese.

A pochi km da Priština, sorge Gazimestan, il luogo in cui il 28 giugno 1389 (il giorno di San Vito, Vidovdan) presso il Campo dei Merli (Kosovo Polje) si scontrarono l’armata turca e una coalizione di eserciti cristiani guidata dai serbi.

In quella leggendaria battaglia perirono sia il Principe serbo Lazar Hrebeljanović che il Sultano turco Murat I; non emerse un chiaro vincitore, ma Milica, vedova di Lazar, fu costretta ad accettare il vassallaggio verso i turchi, dando così inizio a oltre quattro secoli di buia dominazione turca nei Balcani.

I serbi convertirono quell’evento tragico nella chiave di volta del proprio orgoglio nazionale, l’immolazione e il sacrificio di un intero popolo di fronte agli infedeli, alimentando per secoli il riscatto nell’ambito familiare, attraverso storie orali sul Principe Lazar.

Sono passato molte volte da Mitrovica e fa sempre una certa impressione attraversare il ponte che collega e allo stesso tempo divide le due parti della città. Al ponte associo spesso l’immagine delle signore serbe con la borsa della spesa che aspettano un camion che le riporti nella propria enclave, con la scorta di un blindato della forza internazionale.

Le storie qui sotto risalgono al 2004, subito dopo il pogrom del 17 marzo, quando gli albanesi marciarono su tutte le enclavi serbe della regione mettendole a ferro e fuoco sotto gli occhi dei soldati internazionali che non mossero un dito per fermarli.

In Kosovo sarebbero attualmente rimasti circa poco più di 100mila serbi, dei quali la metà nella zona nord, territorio contiguo al resto della Serbia, che arriva fino alla città di Mitrovica appunto. Circa 18mila vivrebbero nell’enclave più importante, quella di Gračanica e Lipljan, organizzata in diversi villaggi, mentre 14mila starebbero a Štrpce, nel sud. Il resto vive in una costellazione di villaggi più piccoli, in cui i serbi sono rinchiusi in piccoli territori circondati dal filo spinato. Per uscire, devono contare sull’aiuto dei blindati internazionali che, in teoria, li “proteggono”. Non fu così appunto nel 2004.

La cosiddetta “Comunità Internazionale” che nel 1999 era ufficialmente intervenuta per fermare la pulizia etnica, in questi dieci anni di amministrazione ha permesso che gli albanesi ripulissero la provincia di tutte le altre etnie, né si è opposta alla creazione di veri e propri ghetti in cui vive rinchiusa la popolazione serba. Non è un segreto che il Kosovo sia diventato in questi anni il crocevia dell’eroina afgana e di altri traffici illeciti, in cui sono coinvolti i più importanti personaggi politici della regione. E, fatto ancor più preoccupante, quasi nessuno denuncia questa situazione assurda, con i mezzi di comunicazione internazionali che brillano per la loro assenza. Anzi, come premio, per i “progressi” fatti, gli Stati Uniti (seguiti pedissequamente dalla maggior parte degli europei) hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, per un totale di circa settanta stati; non l’hanno fatto cinque paesi dell’Unione Europea (quelli con minoranze calde), né è (ancora) accaduto alle Nazioni Unite per l’opposizione di Russia e Cina.

Mitrovica

Il mio arrivo in Kosovo ha spesso avuto inizio da Mitrovica, la città simbolo di questa regione per il fatto di essere divisa: a nord del fiume Ibar i serbi, a sud gli albanesi. Spesso le due comunità si sono scontrate proprio qui, sul famoso ponte, l’ennesimo che nei Balcani ha assunto un significato speciale.

Anche i sanguinosi incidenti dello scorso marzo [del 2004, ndr] hanno avuto inizio a Mitrovica. La scusa era stata l’annegamento di tre bambini albanesi, inseguiti da ragazzi serbi con dei cani si diceva. Successivamente l’accusa si era rivelata infondata, ma ormai le agenzie di stampa di tutto il mondo avevano battuto la notizia e la smentita non ha ottenuto lo stesso risalto.

La tattica degli albanesi è stata la stessa in tutto il Kosovo: organizzare delle dimostrazioni con la presenza di molti ragazzi, mandati avanti nel corteo. Tra gli agitatori, invece, ex militanti dell’UÇK che hanno aizzato la folla a marciare sugli insediamenti serbi.

I due giorni hanno prodotto 19 morti, 900 feriti, 30 chiese distrutte, molte case bruciate, altri 4500 serbi profughi. Non si è trattato di «scontri interetnici» come hanno spiegato le agenzie internazionali di notizie, ma di pulizia etnica organizzata. Tra le altre, la chiesa ortodossa di Mitrovica, che sorge nella parte “sbagliata”, cioè a sud, è stata bruciata davanti ai militari internazionali che si sono limitati a guardare. Ora la situazione è tornata di calma apparente.

Prizren

A Prizren gli albanesi hanno attaccato duramente anche la sede dell’UNMIK. Ma hanno anche bruciato due chiese in centro città. In una di esse, dedicata alla Sveta Bogorodica Ljeviška (Nostra Signora di Ljeviška), sono andati irrimediabilmente perduti i preziosi affreschi risalenti al secolo XIV.

Lo stesso è accaduto al monastero di Sveti Arhanđela, isolato all’uscita della città. Padre Benedikt, 38 anni di Belgrado, mi mostra le parti incendiate: le celle per gli ospiti, la cucina, il magazzino, il laboratorio.

«Circa 500 persone si erano riunite a Prizren e sono arrivate fino qui camminando per mezz’ora in uno sventolio di bandiere», racconta. «Hanno iniziato a tirare oggetti e molotov già dalla strada. Nel frattempo noi siamo scappati attraverso un sentiero di montagna e abbiamo raggiunto un’altra enclave serba a piedi». C’erano 18 militari internazionali, stavolta tedeschi, ma sono rimasti a guardare come gli albanesi incendiavano il complesso, già distrutto dai turchi nel XV secolo.

«Ora viviamo in sette qui, dormiamo nei container e diciamo messa in una tenda. Ci siamo messi a ripulire le macerie e cercheremo di ricostruire il monastero per la terza volta», spiega Benedikt.

Belo Polje

«Che cosa diresti se io venissi nel posto in cui la tua famiglia ha vissuto per molte generazioni chiedendomi se pensi di fermarti ancora lì?», si sorprende Momčilo Savić, “Momo”, 45 anni di Belo Polje, un villaggio vicino a Peć. Questo paesino è stato uno dei luoghi in Kosovo in cui nello scorso marzo gli attacchi contro la popolazione serba sono stati più forti.

Momo è tagliente: «Vogliamo continuare a vivere qui perché questo è la nostra casa. Ricostruiremo le nostre abitazioni un’altra volta, abbiamo solo bisogno di un finanziamento». Dopo quello che è capitato in questi anni, la risposta di Momo non era scontata.

Il posto di blocco di controllo italiano si trova all’entrata del villaggio. Fino dove arriva lo sguardo si nota una completa distruzione: non c’è neanche un edificio in piedi. Tra gli otto serbi rimasti, Radomir Kostić Rade, 65 anni, mostra la sua casa di due piani, tipica di questa regione. «Mio nonno l’aveva costruita originariamente nel 1930», spiega. «Venne bruciata anche nella Seconda Guerra Mondiale. Ed anche allora i soldati italiani erano qui». Niente di nuovo in queste terre.

«Belo Polje è sempre stato un villaggio serbo», spiega Momo. «300 famiglie vivevano qui. Il 26 giugno 1999 quasi tutti dovettero scappare verso la Serbia propriamente detta. Quattro persone vennero uccise dagli albanesi e tutte le case vennero bruciate.

Nello scorso luglio [del 2003 ndr], 34 abitanti ritornarono al villaggio con lo scopo per ricostruire le prime 25 case. Il progetto prevedeva 67 alloggi ed era finanziato dal Centro di Coordinamento serbo. La THW, una ditta tedesca, fornì il materiale.

Proprio il 17 marzo alcuni degli ex abitanti erano venuti per verificare le condizioni e considerare un possibile ritorno. Era la data peggiore che potessero scegliere.

Quel pomeriggio di guardia c’erano solo tre o quattro soldati italiani della KFOR. Verso le 15, un migliaio di albanesi si sono riuniti nel centro di Peć e si sono diretti verso il villaggio. Nel frattempo, i serbi si sono rinchiusi nella parrocchia. Sono arrivati un’altra ventina di soldati, oltre a qualche poliziotto internazionale. Uno di questi, statunitense, ha sparato a un dimostrante, uccidendolo. In quel momento gli italiani stavano evacuando i serbi verso la vicina base militare. Gli albanesi hanno avuto mano libera, bruciando indisturbati le nuove case e distruggendo le tombe del cimitero, senza alcun intervento internazionale.

È difficile immaginare come si possa vivere rinchiusi in una gabbia, in questo caso di un chilometro circa, aspettando che la propria casa venga bruciata un’altra volta.

Il pensiero di Momo è chiaro: «Le autorità devono fornirmi i diritti civili per consentirmi di vivere qui: libertà di movimento, diritto all’educazione, all’assistenza medica. È vero, nel 1997 e 1998 in Kosovo c’era molta polizia serba, ma almeno gli albanesi potevano muoversi liberamente, potevano andare a comprare il pane in centro, a scuola e negli ospedali li curavano senza problemi. Io non posso. Vivo qui chiuso, come in un ghetto», protesta.

Dividono lo stesso destino i pochi serbi che ancora rimangono in Kosovo (a parte nella zona di Mitrovica Nord, contigua alla Serbia propriamente detta), costretti a vivere in enclave grandi e piccole senza la possibilità di uscire, almeno senza scorta armata dei soldati internazionali.

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